La forza di scrivere. Parole e ricordi di guerra nel diario di Arturo Dellai

Anche Fontanari tra gli ospiti della seconda giornata di Biblioè 

Prosegue oggi con diversi appuntamenti di rilievo l'intenso programma di Biblioè. Si inizia alle 10 con L’infinito nell’anima: la poesia di Leopardi, recital e proiezioni a cura di Lucia Ferrai e Giorgio Ragucci. Ricordiamo quindi alle 10.30 Notizie e riflessioni d’attualità con il direttore. Cronaca e pregiudizi: le paure popolari con Enrico Franco direttore del Corriere del Trentino. Da segnare, alle 16, l'incontro con Gianna Schelotto e il suo Chi ama non sa (Rizzoli, 2016).

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Segnaliamo la presenza a Biblioè di "Libri paralleli", otto sculture di Alessandro Fontanari, bibliotecario di Civezzano. Oggi, venerdì 22, la nostra attenzione si sofferma sull'appuntamento delle 15, che vede lo stesso Fontanari intervenire su Da Pergine a Pechino. Diario di guerra di Arturo Dellai (1914-1920), Publistampa, 2016. Con lui dialogherà Massimo Libardi

"Quando Arturo Dellai parte da Pergine per il fronte il 2 agosto 1914 - spiega Fontanari - sulle prime pagine di un quadernetto ha già disegnato "dal vero" il profilo dei monti e dei paesaggi ben conosciuti e amati del suo luogo di nascita: "Geografia dei dintorni di Pergine", senz'altro un viatico a ricordo della piccola patria in cui è nato e che è stata per lui fino a quel giorno il centro del mondo. In questo momento Arturo non può prevedere che il distacco da Pergine durerà ben sei anni: nell'entusiasmo delle mobilitazioni che attraversa l'Europa nell'agosto del 1914 con manifestazioni di festa e di delirio patriottico di massa, tutti erano convinti che la guerra dovesse finire in pochi mesi.

Arturo Dellai inizia a registrare cosa ha fatto e visto; non lo fa quotidianamente, ma raggruppando osservazioni relative a più giorni o addirittura a intere settimane, quindi con salti temporali anche vistosi. La sua scrittura, condizionata da una formazione scolastica elementare, è semplice, uniforme, a volte ripetitiva; gli interessano i fatti, i luoghi, le circostanze che esprime con sobrietà descrittiva; è poco propenso a mostrare pensieri e riflessioni interiori, poche volte lascia trasparire emozioni. Si tratta insomma quasi di un grado zero della scrittura diaristica, consistente in notazioni fattuali concise sempre collegate a una data e un luogo, appuntate per promemoria, molto distante quindi da una pratica del diario letterariamente complessa degli scrittori e degli intellettuali che si avvicina o trapassa nel memoriale, nell'autobiografia, nel brogliaccio di idee e di progetti: tre modalità dello scrivere di sè in relazione al mondo e agli eventi che intendono saggiare il proprio pensiero e portare allo scoperto i più segreti moti dell'animo.

Eppure le 144 paginette con circa diecimila parole di Arturo Dellai - poche considerando il tempo di sei anni, moltissime dal punto di vista delle vicissitudini passate – sono la prova della necessità insopprimibile che lo ha spinto a scrivere. Dopo il ferimento in battaglia, prigioniero e immobilizzato a letto nell'ospedale militare russo di Kiev, scrive otto pagine in pochi giorni che conclude così: "Devo smettere di scrivere queste mie poche righe perchè mi fa male anche la mano destra. Nel braccio ò alcune schegge e adesso mi fanno male, spero di continuare più avanti". Un mese dopo può ricominciare a scrivere: "[...] un po' alla volta riprendo la forza e mi metto anche a scrivere questi pochi ricordi" (p. 33).  Nei momenti critici estremi anche scrivere è impossibile: "Non ò più volia di scrivere perchè sono molto debole e le mani sono congelate. Manca anche il mangiare<.>La vedo brutta" , e ancora: "Non ò più neanche la voglia di scrivere dalla rabbia e non so cosa pensare". Ma la forza di scrivere ritorna sempre di nuovo.

Si è accennato al gran numero di cartoline spedite da Arturo Dellai; per quanto riguarda il rapporto che esse hanno con i diari si può subito osservarne la funzione di complementarità e perfino di sostituzione: ciò che non scrive nel diario appare invece nelle cartoline. Un esempio significativo: il tragitto da Pergine a Leopoli nel diario è sbrigato in meno di due paginette, mentre invia molte cartoline da ogni città attraversata (Bolzano, Bressanone, Innsbruck, Hall, Salisburgo, Linz, Klagenfurt, Vienna, Budapest) con informazioni dettagliate su ogni tappa e sulle sue condizioni. Dei due lunghi periodi di lavoro nei campi dell'Ucraina (estate del 1915 e del 1916) quando è ancora prigioniero dei russi, scrive poco, mentre nelle cartoline illustrate descrive i contadini e i loro usi. La stessa considerazione vale per la Manciuria russa e cinese, per  Tientsin e per Pechino, di cui lascia scarse notizie nel diario mentre colleziona decine di cartoline con fotografie di paesaggi, di città, di palazzi, di abitanti nei vari costumi. Anche il lungo tragitto del ritorno in nave da Pechino a Trieste, è documentato soprattutto dalle molte cartoline acquistate nei porti durante ogni sosta. 

L'intento di trasformare un'immagine in reliquia, cioè in un frammento portatile simbolicamente denso per la sua provenienza e per la memoria che trattiene, è dimostrato da un "santino" russo con il Cristo morente dipinto sulla croce ortodossa che manda ai familiari da Kiev il 13 ottobre 1915: sul retro dell'immagine sacra, un simbolo dolente di sacrificio, sono incollate due foglioline e al centro una strisciatura nera: in poche righe la spiegazione: "Quelle due foglie secche e dove sono i segni di terreno di guerra tutti tre di questo sia un ricordo della Russia che vi manda il Vostro figlio".

La tonalità distaccata, quasi di registrazione protocollare - il riflesso scritto di una tecnica di sopravvivenza - che prevale nel diario, non viene meno neanche nelle situazioni più dolorose: "Il 21.6 mi cavo da solo un dente che da tempo mi fa un gran male<,>è un grosso molare  e me lo levo con un chiodo bruciato e alcol" (p. 55); oppure "la febbre mi fa stare molto male ma non c'è tempo di lamenti" (p. 91). Solo in alcuni punti si lascia andare a espressioni emotive più forti, ad esempio quando scrive del III° combattimento in Galizia nel settembre 1914, quello in cui rimane gravemente ferito e fatto prigioniero: "Ferito in molte parti del corpo <.> Ò una grossa ferita alla gamba destra e molte ferite al corpo<.> Le scheggie dei proiettili dei russi mi sono  entrate in tutto il corpo<,> nelle braccia e gambe<.>Sono contento di essere ancora vivo"(p. 24-25): e ancora: "Durante il ricovero all'ospedale mi viene in mente l'ultima battaglia a Tellatin [Telatyn] e sono contento di non essere rimasto in quell'inferno".

Unici rilevanti momenti di sfogo si riscontrano quando esprime irritazione, poi rabbia per le continue promesse non mantenute dalle autorità militare italiane di tornare in Italia. Una sola volta non trattiene le imprecazioni  "Porca miseria di nuovo imbarcati sulla Transiberiana verso la Siberia proprio nei mesi più freddi altro che ritorno in Italia. Mi pare che ci prendono per i toteni"; qualche riga dopo: "Quasi mi pento di aver firmato quel maledetto foglio che ci prometteva di arrivare in Italia e mari e monti... L'Italia forse ci à abbandonati, non so proprio cosa facciamo qui in Siberia così lontani dall'Italia". Prevale  nell'ultimo anno il disincanto e la rassegnazione: "Ormai sono abituato alle promesse dei superiori e prendo la vita come capita" - conclude Fontanari.


21/04/2016

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