Una donna

È il 1906 quando Sibilla Aleramo pubblica il suo romanzo: ansie, dubbi, rimorsi, propositi, volontà di guardare avanti palpitano in queste pagine. Oggi come allora

La mia fanciullezza fu libera e gagliarda. Risuscitarla nel ricordo, farla riscintillare dinanzi alla mia coscienza, è un vano sforzo. Rivedo la bambina ch'io ero a sei, a dieci anni, ma come se l’avessi sognata. Un sogno bello, che il menomo richiamo della realtà presente può far dileguare. Una musica, fors'anche: un'armonia delicata e vibrante, e una luce che l'avvolge, e la gioia ancora grande nel ricordo. Per tanto tempo, nell'epoca buia della mia vita, ho guardato a quella mia alba come a qualcosa di perfetto, come alla vera felicità. Ora, cogli occhi meno ansiosi, distinguo anche nei miei primissimi anni qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi interamente felice. Non mai disgraziata, neppure; libera e forte, si, questo dovevo sentirlo. Ero la figliuola maggiore, esercitavo senza timori la mia prepotenza sulle due sorelline e sul fratello: mio padre dimostrava di preferirmi, e capivo il suo proposito di crescermi sempre migliore. Io avevo salute, grazia, intelligenza — mi si diceva — e giocattoli, dolci, libri, e un pezzetto di giardino mio. La mamma non si opponeva mai a' miei desideri. Perfino le amiche mi erano soggette spontaneamente. L'amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un'adorazione illimitata; e di questa differenza mi rendevo conto, senza osare di cercarne le cause.

È il 1906 quando sotto lo pseudonimo di Sibilla Aleramo, Rina Faccio (Alessandria 1876 – Roma 1960) pubblica Una donna,  un’autobiografia in cui tutt’oggi si sente vibrare l’urgenza di dare testimonianza sulla condizione della donna e sulla molteplicità di ruoli che da sempre deve conciliare.

Nata in una famiglia borghese - padre imprenditore e madre la cui figura è da lui prevaricata e messa in ombra – Sibilla Aeramo, ragazza di sensibilità precoce e di acuta intelligenza, mal sopporta di dover interrompere gli studi che tanto ama perché il padre decide di trasferire l’attività da Milano a un piccolo centro del sud Italia. Adolescente sarà violentata da un dipendente dell’azienda paterna, lo sposerà e a diciassette anni sarà già madre.

Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere  una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la dànno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia?

Si conclude così in modo repentino l’adolescenza di Aleramo, che al contempo avverte come sempre più frustrante e meschina la vita impostale dal marito. Deciderà di lasciarlo, ma questo avrà come conseguenza l’imposizione di portare con sé il bambino.

Molto tempo è passato. Un anno, ormai. Non sono tornata laggiù. Non ho più riveduto mio figlio. Il presentimento oscuro non falliva. Per quanti mesi ho lottato conservando l'illusione di ottenere mio figlio? I primi giorni mi furono quasi un riposo, sotto la vigilanza silenziosa e trepida di mia sorella: poi, le settimane si susseguirono in uno scambio sempre più violento di lettere tra me e mio marito, tra lui e mio padre, infine tra i nostri avvocati. 


06/03/2017

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