L'utopia delle passioni. Amare uomini che appartengono all'infinito

Laura Mancuso d’Arrigo, Manuela Sparapani Nones, Silke Perathoner Unterkircher: tre donne coraggiose, che ricordano i loro tre uomini

Nuovo appuntamento di UTOPIA500-Cercando una società più giusta, stavolta nell’ambito del calendario del Trento Film Festival, mercoledì 4 maggio alle ore 19 nella sala della Fondazione Caritro a Trento: “L'utopia delle passioni. Amare uomini che appartengono all'infinito” con Laura Mancuso d’Arrigo, Manuela Sparapani Nones, Silke Perathoner Unterkircher. Introduce Arianna Bazzanella, coordina Paolo Ghezzi.

Tre donne coraggiose, che ricordano i loro tre uomini (due grandi alpinisti, Walter Nones e Karl Unterkircher, e uno straordinario deltaplanista-sorvolatore, Angelo d’Arrigo) scomparsi mente inseguivano i loro sogni a grande altezza: un modo per dire che l’utopia è anche la ricerca di “eu-topia”, luoghi buoni, alti e altri, incontaminati.

Arianna Bazzanella ci offre un approfondimento sull'incontro:

«Le montagne intorno a noi assumono sfumature stupende, mentre nasce il nuovo giorno. Ma il silenzio è la cosa più impressionante. Sembra di assistere alla creazione del mondo.» (Walter Nones e Simon Kehrer, È la montagna che chiama, giugno 2009, Mondadori).

«Non vedo l’ora di lasciarmi alle spalle il caos, l’aria inquinata, le masse di gente in continuo movimento, e raggiungere quello che per tutti noi è il luogo più vicino alla nostra idea di paradiso. La montagna. Con il suo silenzio, la sua aria fresca e pulita, la solitudine.» (pag. 15-16)

Estate 2008. Gli alpinisti trentino-altoatesini Simon Kehrer, Walter Nones, Karl Unterkircher partono per Islamabad. Ultima tappa metropolitana prima dell’avventura: aprire una nuova via sul Nanga Parbat (8.125 metri), la «montagna mangiauomini» per gli sherpa. La spedizione inizia nell’indifferenza dei media, come spesso accade a tutto ciò che pur grande non ha a che fare con lo show business o il calcio. Ma qualcosa cambia e la fa diventare di dominio pubblico: Karl rimarrà per sempre lassù.

La vita dei due superstiti sembra a rischio: così si mobilitano gli apparati di soccorso, i Tg nazionali e locali cominciano a parlarne ogni giorno, descrivendo morbosamente i rapidi avvistamenti e i fugaci contatti tramite telefono satellitare. Il timore è che la perdita del compagno e il peggioramento delle condizioni metereologiche mettano a repentaglio la loro tenuta psicologica e così le loro abilità di rientrare sani e salvi al campo base.

Conosco indirettamente uno dei tre. Inevitabilmente mi sento coinvolta e seguo con apprensione la vicenda sperando che la buona notizia arrivi presto. E alla fine arriva: recuperati dagli elicotteri, Simon e Walter vengono tratti in salvo e portati al campo base, dove sono attesi da colleghi giunti sul posto. Al loro rientro scoppia una battage mediatica sul senso di tutto questo: la boria umana versus la passione, la necessità di portare (costosi) soccorsi versus lasciarli alle loro scelte, il dispiacere per la perdita versus la sua inevitabilità per chi corre rischi così alti… E così via.

Giornalisti non ancora alle prese con la crisi economica (peraltro dimenticata molto in fretta) o i nani e le ballerine, dedicano ampio spazio all’esito della spedizione, non di rado in modo polemico e strumentale.

«Il nostro rientro in Italia è stato accompagnato da una certa risonanza mediatica e da forti polemiche più o meno strumentali circa il nostro recupero o, secondo alcuni, salvataggio. Alle volte si dimentica che la verità va vista anche con gli occhi di chi la vicenda l’ha vissuta, all’oscuro di quanto gli girava intorno. Noi guide alpine andiamo in montagna non solo per passione, ma anche per professione. Da professionisti siamo consapevoli dei rischi che ciò comporta, l’abbiamo cominciato a imparare quando avevamo i calzoni corti.» (pagina 155)

Il libro è un racconto appassionato un po’ diario, un po’ memoriale, un po’ resoconto tecnico. Il punto di vista di chi quei giorni li ha vissuti da alpinista, da uomo, da amico. Un inno alla bellezza. Il mondo ne è pieno. E per questi uomini – che forse per metà appartengono già al cielo – è la montagna. Quella montagna che chiama, come hanno scritto. Da cui non riescono a staccarsi. Che è parte di loro e di cui sono parte. Che amano con deferenza, nonostante l’impegno e il rispetto che chiede e che loro conoscono bene. Per qualcuno è difficile capire questo amore sconfinato quanto pericoloso.

Credo non possano o non vogliano scorgerne la profondità, la devozione, la generosità, la forza, l’umanità che comporta e preferiscano liquidarlo come pazzia, superbia, stravaganza per non doverci fare i conti. Per non dover ammettere che non è facile avere il privilegio di una passione così grande che ti rende nobile e lontano anni luce dalle banalità del nostro quotidiano.

Non sono una alpinista. Neanche una gran «montanara». Ma provo ammirazione e un po’ di invidia per coloro che riescono ad amare le vette tanto da rischiare la vita per conoscerle. Quando mi trovo su una piccola cima riesco a capire cosa li porti a cercarle.

«Nella nostra vita quotidiana siamo abituati a svegliarci la mattina per affrontare una giornata già prestabilita, uguale alla precedente e alla successiva. Non puoi nemmeno uscire di casa, se prima non hai digitato sei codici pin come minimo. Be’, in posti come questo cambia tutto. Guardi la montagna e non sai che cosa ti può aspettare un passo più in là. Ti sposti di dieci metri ed è già diverso, trovi qualcosa di nuovo nella sua fisionomia in continuo mutamento. Respiri la montagna e ne trai una sensazione di libertà che al giorno d’oggi forse nient’alto è in grado di trasmetterti. Non esagero se dico che, mentre me ne sto qui sotto la veranda del lodge a contemplare il profilo del Nanga, sono pienamente felice.» (pag. 25)

Arianna Bazzanella - Trento Film Festival

02/05/2016

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